23 Maggio 2020

L’incendio e la pietà: su Roberto Roversi, il poeta che invecchiando infanciullisce

Lʼopera di Roberto Roversi deve ancora cominciare ad essere studiata (mi verrebbe da dire: letta). La difficoltà nellʼintraprendere un percorso di studi roversiani consiste non solo nella personalità dellʼautore, particolarmente obliqua e imprendibile nelle dinamiche ottusamente dualistiche della cultura italiana (basti pensare, per farsi unʼidea, alla sua tesi di laurea presso la Facoltà di filosofia di Bologna su “Le origini dellʼirrazionalismo in Nietzsche studiate nelle opere giovanili”, anno 1946, a pochi passi dalla guerra di liberazione cui partecipò fisicamente e non solo con le armi della ragione) ma anche dalla mole di materiale non organizzato sistematicamente, fogli sparsi e canzoni volanti che spuntano ancora oggi come funghi.

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Vale per Roversi la categoria nicciana dei pensieri in cammino, contro i falsi pensieri del linguaggio (Genealogia della morale), vale a dire unʼidea di scrittura come diario di bordo, taccuino in atto di considerazioni erranti. Ciò caratterizza anche la natura dei suoi faldoni soggetti a numerose edizioni parziali o con varianti e aggiunte anche a distanza di decenni. La lunga lista bibliografica può essere, per intraprendere un primo percorso di studi, ridotta a pochi titoli fondamentali (mi concentro in questo momento sulla poesia e sui romanzi, tralasciando il teatro su cui si dovrebbe aprire un capitolo a parte) che invito il “nuovo lettore di Roversi” a rinvenire. Per la poesia: Dopo Campoformio (1962; edizione definitiva 1965), Le descrizioni in atto (1970; 1985; edizione definitiva 1990) e LʼItalia sepolta sotto la neve (2010; a partire da 1984). Per la scrittura in prosa: Caccia allʼuomo (1959), Registrazione di eventi (1964) e I diecimila cavalli (1976).

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A partire da questo nucleo di “fondamentali” si potrà dunque procedere, per chi vorrà, a ritroso fino alle plaquette di esordio (il battesimo giovanile è con Poesie nel 1942, cui seguono dodici anni di silenzio, e un nuovo esordio con le Poesie per lʼamatore di stampe nel 1954) o in esplorazione verso i capitoli a margine che costellano la mappa bibliografica dellʼavventura roversiana (il portale robertoroversi.it, curato dal nipote Antonio Bagnoli, offre una labirintica mappatura e anche la possibilità di sfogliare alcuni titoli, per quanto lʼinvito implicito del poeta, anche alla luce della sua predilezione per pubblicazioni in copie limitate con piccoli editori o addirittura fuori commercio, mi pare resti quello dellʼattraversamento del mondo sotterraneo delle biblioteche o delle librerie antiquarie e di modernariato, un universo minore – nellʼaccezione di Benjamin, di una marginalità come dimensione salvifica dalle dinamiche maggiori della storia – profondamente amato da Roversi che proprio nella Libreria antiquaria Palmaverde di Bologna fondò la sua dimora intellettuale).

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Unʼantologia nutriente di brani in prosa, poesia e alcuni interventi teorici, e che è possibile ancora oggi trovare in commercio, è stata pubblicata da Luca Sossella nel 2008 con il titolo Tre poesie e alcune prose (a cura di Marco Giovenale). Traggo da questo volume uno splendido frammento di poetica, da una conversazione con Giancarlo Ferretti, originariamente posta a premessa del romanzo I diecimila cavalli, e che mi pare segni, anche, la differenza sostanziale tra la sperimentazione vivente del poeta bolognese, il cui centro è la vita dellʼuomo che attraversa la storia, e i laboratori autoptici della neo-avanguardia italiana, il cui centro è piuttosto il linguaggio della storia che attraversa lʼuomo. Il rifiuto di un approccio ideologico alla scrittura non poteva che porsi anche in rifiuto delle estetiche precedenti del realismo pedagogico del dopoguerra e questa distanza tanto dal neorealismo quanto dal teppismo teorico dei Novissimi, intesi entrambi come momenti di sottomissione della poesia alla comunicazione, e della dimensione umana alla necessità politica, è la lezione sostanziale della rivista “Officina”, e delle opere che da lì fuoriescono: Roversi, Pasolini, Fortini.

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Qui Roversi dice, in relazione a I diecimila cavalli: “Il libro prende moto nel segno di due riferimenti emblematici: l’incendio di Mosca (cioè la violenza di quell’incendio) e l’arpa birmana (cioè l’autentica pietà, anche in quel film); tutto ciò che brucia per la violenza del fuoco e tuttavia non finisce per bruciare e tutto ciò che la pietà, non dico solo salva, ma riordina e torna a riportarci perché possa ancora durare e servire soprattutto la nostra coscienza e i nostri pensieri. Ecco un elemento del libro che ci terrei se riuscisse a saltare fuori: non una tenerezza per le cose, non una tenerezza solo generica per noi ma la vera dura grande e faticosa, direi faticata, pietà che dovrebbe segnare il rapporto civile e virile tra tutti; un grande vento sconvolgente. […] Scusami ma insisto perché per me è importante: credo che la pietà, e l’esercizio della pietà, rappresenti un sentimento vittorioso, capace di caricare la nostra azione, anche e soprattutto politica, di elementi nuovi, di una tensione che ci permetta di incontrare e affrontare i problemi senza pregiudizi o falsa coscienza. La pietà è naturalmente comprensione ma è anche aspettare a giudicare, non concludere tutto in fretta con la rabbia dell’insoddisfazione”. E ancora: “Discutendo parlando scrivendo adesso abbiamo bisogno, direi un bisogno urgente, di ricuperare al nostro discorso una serie di temi, di elementi antropologici che erano stati accantonati frettolosamente e con un certo snobismo squallido come deteriori, reazionari, invecchiati; insomma come inutili e perfino pericolosi. Il discorso sull’amore, sul sesso, sulla paura della morte, inesistenti nel realismo spiritato di tanti anni, vanno recuperati uno per uno, collocandoli in una diversa disposizione che ci consenta di sentirli, direi: di risentirli, subito come nostri e come parte di una vita ritrovata”.

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I romanzi e lʼopera poetica, fino a Le descrizioni in atto, possono essere in parte illuminati da questa conversazione che segna, mi pare, uno spartiacque tra due epoche. Ciò che la precede è la forsennata opera dello sperimentatore bolognese, i suoi “materiali ferrosi” tra Tommaso Campanella e Jim Morrison, Agrippa dʼAubigné, Hölderlin e Osip Mandelʼstam, poesie in forma di canzoni per la radio (assieme a Lucio Dalla, con cui ruppe con pacifica intransigenza luterana), lettere in versi ciclostilate in proprio e volantinate in strada, le riviste, lʼabbandono della grande editoria per lʼautodistribuzione, il teatro incendiario (alla prima de Il crack al Piccolo di Milano il pubblico militante di studenti insorse mettendo a soqquadro la sala: “Fu meglio di tanti applausi”, mi disse in conversazione privata. Su “LʼUnità” del 10 aprile 1969 scrisse invece di “vecchio ingorgo ideologico di una sinistra impallata su congelati schematismi”). Ciò che ne segue è il lungo, misterioso e silenzioso viaggio dʼinverno de LʼItalia sepolta sotto la neve.

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LʼItalia sepolta sotto la neve, la cui composizione certificata ha inizio almeno dal 1984 e si conclude nel 2010, è il vero grande enigma dellʼopera roversiana. Sono persuaso si tratti del capolavoro di Roberto Roversi ma anche, probabilmente, di uno dei libri di poesia europea più importanti degli anni Duemila. Lo immagino, a volte, come il poema che battezza il millennio e lʼultimo Roversi un uomo antico, poeta guerriero e filosofo che invecchiando infanciullisce. Come spesso accade, per un dolce gioco di armonie segrete, la destinazione del tragitto umano pare convergere con il suo principio. Il poema, composto lungo tre decenni di smottamento epocale (dalle macerie del muro di Berlino alle Twin Towers; dalla fine del Novecento allʼimplosione della bolla speculativa del postmoderno), e suddiviso in cinque sezioni dai titoli adamantini e arcani (Premessa; Fuga dei sette re prigionieri; La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche; Astolfo trasforma sassi in cavalli e Trenta miserie dʼItalia), mi pare infatti intimamente connesso a quella scintillante tesi di laurea su Nietzsche (oggi edita da Pendragon) in cui il poeta, poco più che ventenne, appuntava: “Ricorda la sorella come Nietzsche scrivesse le sue opere, cominciando dalla fine del quaderno e risalendo via via – da una sola facciata – verso il principio; e io mi sono spesso domandato se questo non possa prendersi come motivo per giudicare il filosofo: intendo – cioè – cominciando dalle opere ultime per risalire – lentamente – a quel gioioso e profondo fremito giovanile che è la Nascita della tragedia. In Nietzsche non vi è svolgimento: non è uomo da sciogliersi nel tempo in una progressione continuata e sicura, nel ritrovamento di nuovi motivi o di nuovi pensieri scaturenti lʼuno dallʼaltro secondo un ordine logico, naturale: poiché è così, dico, che si formano i sistemi. E in Nietzsche non vi è sistema, naturalmente: poiché un irrazionalista non può giungere al trionfo della razionalità, che è – appunto – il sistema. Nel sistema la logica celebra la propria vittoria: entro quei confini sacri la ragione, dopo lʼaspro travaglio speculativo, trova per quanto è possibile il proprio appagamento. Lʼirrazionalista si lascia condurre invece da tutti i motivi che i razionalisti dispregiano o sottomettono al proprio logico discorso: impulsi, intuizioni, baleni rapidi che avvampano. Lontano da ogni metafisica, lʼirrazionalista celebra nella vita, senza più misura, in una libertà sconfinata, il proprio tripudio e – magari – la propria salvazione. Al coerente si oppone lʼincoerente e la vita dello spirito è vista nel suo svolgersi indeterminato e indeterminabile. […] Raccontano che i marinai di una nave bordeggiante presso unʼisola sconosciuta udirono gridare, disperatamente, in pieno meriggio: “il dio Pan è morto”. Dopo secoli, Nietzsche fu il primo che udì disperatamente il richiamo di antichi tempi: “il dio Dioniso è morto”. Così è nata questʼopera nuova e diversa”.

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Se dovessi scegliere una parola che esprima la forza misteriosa di questʼopera-viaggio, questa parola, mi ripeto, è “enigma”, con tutto il carico ruvidamente arcaico di significati che porta in sé. Ma enigma non è cifra di irrazionalità, né si può certo definire Roberto Roversi un irrazionalista (come a ventʼanni definiva il suo Nietzsche), tantomeno di una volontà di essere o di apparire oscuri per capriccio ermetico. Enigma è un fare luce nel buio, un camminare nellʼignoto, attraversando la complessità simultanea degli eventi senza idee a priori circa quanto si intenderà trovare. Vale a dire trovare senza cercare, oppure cercare qualsiasi cosa, nello stupore del viaggio di conoscenza. Essere un uomo nel paesaggio della storia e non un narratore onnisciente. Inserire la propria voce nella sinfonia dei suoni, essere sempre in ascolto. Non un comprendere quanto un essere compresi, piuttosto. Lʼopera deposta da Roversi sulla battigia storica, prima del grande viaggio verso lʼisola dei beati, è un sistema neuronale, i cui versi sono articolazioni nervose, sentieri innervati che si dipanano azionando delle parole-immagini evocative di sensazioni tattili o olfattive, o di visioni o di ragionamenti e ricordi come forze attive plastiche, viventi e sempre in atto. Gli enigmi dellʼultimo Roversi sono frammenti di visione senza biografia, appunti di riflessione in cammino, scritture come lembi residuali di unʼavventura, in cui lʼoggetto dellʼesperienza giace sotto la carta, non sulla sua superficie (Dante: “Sotto ʼl velame de li versi strani”), dove la carta è il diario di bordo di un viaggio (ma non è il viaggio), e in cui il soggetto siamo anche noi. Viaggio che invita al viaggio, alla sua prosecuzione e completamento. Così si chiude il poema:

Il tuo destino è oscuro
Italia trenta, trenta.
Ogni viottolo un tumulo d’antichi guerrieri
ogni cima una fortezza abbandonata
nelle vallate cunicoli di trincee
mani di vecchi soldati affiorano fra i sassi.
Con il fuoco nel cuore
e il suono
dolente di una campana
nell’orecchio.
Chi vincerà le tue battaglie?
Ancora una volta per te?
Il futuro ti aspetta…

Davide Nota

Gruppo MAGOG